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Intorno ai parchi d’Abruzzo

Il monte Cappucciata é un luogo privilegiato per cogliere tutto il senso dell’Abruzzo dal mare alle sue piú alte cime. In un colpo solo si possono percorrere con lo sguardo tutti i parchi che abbiamo attraversato.

É strano cavalcare per cinquecento chilometri e trovarmi a meno di cinquanta chilometri da dov’ero partita, prima di filare davvero a nord. Non potevo fare diversamente. L’Abruzzo é una regione di parchi giganteschi e molto diversi tra di loro.

 

La terra di mezzo tra il Sirente e il Velino é una scalinata di pianori erbosi che si chiamano Piani di Pezza. Dovevo portare qui Custode e Чигээрээ, ogni cavallo al mondo sarebbe felice di passare l’estate qui!!

Il Parco Regionale Sirente Velino fatto di alti pascoli domina con mentalità arcaica la piana del Fucino dove brulica un’intensa agricoltura.

Il Passo Godi é un confine del Parco Nazionale d’Abruzzo ed é un riassunto del parco. Sotto un faggio secolarre mi sono riparata dalla pioggia, al fontanile sottostante é stato condotto un gregge all’abbeverata. Appena andate via le pecore, sono arrivati tre lupi e hanno bevuto anche loro, prima di prendere il sentiero della foresta.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo é sorgente di orsi e camosci protetti con regolamenti che ricalcano quelli di cent’anni fa.

La Majella é un luogo da pastori da tempo immemorabile, come in ogni luogo del mondo hanno avuto bisogno di ripararsi. Le soluzioni architettoniche con materiali diversi hanno un sottofondo comune. Guardo questi ripari di pietra con il soffitto a cupola e vedo le pareti trasformarsi in feltri. Sotto lo stesso vento, dall’altra parte del mondo i pastori abitano nelle gher ancora oggi!

Il Parco Nazionale della Majella palesa il senso di protezione della sua grande montagna su tutti gli esseri che la abitano.

Fuori rotta nel circo glaciale del Venacquaro tra le antiche morene e gli ultimi nevai che rendono questo angolo di Appennino il piú alpino, memoria leggibile di epoche lontane.

Il Parco Nazionale del Gran Sasso si eleva di fronte al mare come un guardiano e chi ci lavora ne fa un campo sperimentale di buone pratiche per la convivenza di selvatici, domestici, uomini e rocce inaccessibili.

Finalmente un cucchiaino di neve!

Andiamo avanti e avanti, ma adesso potrò scrivere di piú  e mettere al corrente di cosa mi hanno lasciato gli incontri con le persone che curano questi territori.

La sete delle montagne

1922: gli uomini schiacciati dalle turbolenze della prima guerra mondiale e dell’epidemia di spagnola, tornano a sognare e progettare quello che si era interrotto ovunque per anni in cui l’unico pensiero era stato la sopravvivenza.
Tra il fiorire di idee di quegli anni, vengono fondati i primi due parchi nazionali italiani: il Parco d’Abruzzo su spinta di privati ed associazioni, guidati da Erminio Sipari e il Parco del Gran Paradiso su iniziativa del re.
Sono passati cent’anni.

Чигээрээ e Custode in viaggio dietro la cartolina.

L’idea di festeggiare questo compleanno con un viaggio a cavallo che mi permetterà di collegare questi due parchi, mi obbliga a molte riflessioni su quante cose sono cambiate in questo strano secolo che ripropone simili nuvole tempestose all’orizzonte.

Sono partita il 10 giugno dalla piana del Fucino per arrivare a Pescasseroli il 15, dopo aver attraversato il Parco regionale del Sirente Velino. Il progetto è di collegare i due parchi più antichi, attraversando tutti i parchi Nazionali nati nei secoli lungo la strada e guardando cosa trovo scritto dietro la cartolina di questi posti magnifici in cui ogni pietra e fiore hanno qualcosa da raccontare. Lungo la strada interrogherò le persone che si occupano di territori protetti e non, su tre argomenti che ritengo significativi per andare a fondo su come è cambiata la fruizione e la protezione dell’ambiente in queste quattro generazioni che sembrano tante, ma che sulla linea del tempo non sono neanche un istante.
I tre temi sono: il ghiaccio che se ne va, il lupo che torna, la foresta che invade i pascoli.

Perle del mondo selvatico che basta poco a calpestare, basta poco a rispettare.

Il dono che vorrei costruire camminando è rappresentato da una piccola borraccia realizzata apposta da Teresio Guiffrey, pisteur di Melezet, poeta e fabbro, saldando due fondelli di tubi dell’innevamento desueti e dismessi. In questo contenitore, fatto di materiali pensati per fabbricare neve artificiale, aggiungerò man mano poche gocce di acqua di ogni sorgente, fontanile o fontana che incontrerò lungo la strada.

Il dono per il ghiacciaio.
Foto di Simona Erminia Bramati

A fine settembre farò evaporare il contenuto su un bracere al cospetto del Gran Paradiso, con il sogno che diventi una nuvola, che diventi neve per nutrire il ghiacciaio ormai stanco.
Ormai non ha più senso affliggersi o pensare a come siamo arrivati a questo punto di metamorfosi della natura. Occorre farci i conti e cercare soluzioni che sfondino il cielo plumbeo e ci restituiscano tutte le possibilità che abbiamo sempre avuto di abitare questo mondo con rispetto.
Non credevo e credo sempre di meno all’estremismo misantropo di chi vede nell’essere umano l’unico male del mondo. Credo che sintonizzandoci sulle nostre reali possibilità e pagando agli altri esseri che abitano il pianeta il giusto prezzo per ciò che ci offrono, possiamo fare ancora qualcosa di bello. La questione degli arretrati con cui abbiamo sfruttato oltre misura altri popoli e continenti va affrontata onestamente, credo che sia l’unico modo per avanzare con dignità.

Custode e Tcigherè non si pongono questioni di questo genere. Mi stanno aiutando a realizzare anche questo progetto perchè ormai i nostri destini sono intrecciati da tanti chilometri percorsi insieme.
Custode come sempre avanza con il passo di un metronomo e Tcigherè con quello di un fuoco di paglia, lo fermerò prima che si spenga, so che è fatto così e che adesso ce la sta mettendo tutta. So che quando fa parte della squadra è meglio che quando devo fermarlo. Devo accettarlo così come è.

Чигээрээ c’é quando c’é

Isotta Raminga ha trent’anni, dopo tanta strada fatta insieme senza passare mai un’estate in pianura, adesso è a casa, Marco, Silvio, Valeria e Martina si occupano di lei.

Isotta Raminga il giorno prima di partire.
Foto di Valeria Fioranti

Criminali innocenti

Nessuno di noi è innocente, questa vita così strettamente connessa al nostro lavoro non è riconducibile a nessuno schema. Ogni volta le soluzioni sono da inventare al limite dello schema.
– Candido, pastore del Lagorai-

Fulvio Benedetto, pastore dell'Alpe Jouglard. L'unico momento dell'anno in cui vive in una casa con quattro pareti e un tetto è l'estate. Portando il gregge per tutto il resto dell'anno a inseguire l'erba dalla Val Chisone a Vallandona in provincia di Asti, porta la roulotte con tutto il necessario per vivere e trasportare il materiale per i recinti e gli agnelli da un pascolo all' altro. Le pecore devono mangiare tutti i giorni e, quando sono tante, l'erba finisce in fretta.
Fulvio Benedetto, pastore dell’Alpe Jouglard. L’unico momento dell’anno in cui vive in una casa con quattro pareti e un tetto è l’estate. Portando il gregge per tutto il resto dell’anno a inseguire l’erba dalla Val Chisone a Vallandona in provincia di Asti, si sposta con la roulotte con tutto il necessario per vivere oltre a trasportare il materiale per i recinti e gli agnelli appena nati. Le pecore devono mangiare tutti i giorni e, quando sono tante, l’erba finisce in fretta. Foto Paolo Bosio

Fermarsi sul prato di uno sconosciuto che non ha dato l’autorizzazione è reato penale.
Passare da un posto a un altro spostando a piedi un migliaio di pecore è un’impresa sempre più difficile.
I passaggi sui canali che sono sempre serviti per muoversi tra i campi, sono sempre di meno, crollano e non vengono ripristinati. I grandi trattori che rendono possibile l’agricoltura moderna non hanno bisogno di scorciatoie ma di strade larghe e possibilmente asfaltate.
Con l’ aumentare delle aree interdette al pascolo, aumentano i chilometri da coprire per spostarsi da un posto a un altro. Pecore più deboli e agnelli soccombono facilmente.
Se una pecora cade in un fosso, le altre la seguono e si ammassano una sull’ altra fino a soffocarsi e stritolarsi a vicenda.
Diserbanti e trattamenti sono veleni che restano attaccati alla terra e possono intossicare gli animali.

Alcune famiglie sono rimaste unite tramandando il mestiere di padre in figlio e grazie al numero, riescono a sopperire al bisogno di manodopera. Altre famiglie si sono polverizzate nella civilizzazione, attratte dalla fabbrica, dallo studio, dalla prospettiva di una vita tranquilla.
Un pastore da solo è obbligato a fermarsi o ad assumere personale. Il personale disposto a lavorare nelle condizioni precarie che questo mestiere impone e ai prezzi che i pastori possono permettersi di pagare è prevalentemente formato da extracomunitari e si ferma quel tanto di cui ha bisogno per trovare un altro lavoro e poi svanire o tornare con denunce di sfruttamento di manodopera in nero e altre accuse costose da riparare, difficili da evitare.

Un mondo stanziale non è più in grado di comprendere la fame di erba delle ultime greggi transumanti che attraversano la civilizzazione.
Il pastore vagante percorreva vie di transumanza che vedevano passare decine di migliaia di erbivori ogni anno, in autunno verso la pianura e in primavera verso i monti. Queste vie sono amputate in più punti e costringono gli ultimi pastori a inventare soluzioni che gli permettano di superare le aree ostili. La soluzione più semplice è sospesa sul rapporto umano, finché un pastore ha come meta un pascolo dove sa di essere ben accolto è tutto in discesa. Negli anni si creano legami simili all’amicizia e tutto va bene. Non sempre è così, ci sono aree dove un pastore è atteso tutto l’anno e quando arriva gli si va incontro con un termos di caffè bollente ogni mattina e altre dove lo stesso pastore è atteso dietro finestre socchiuse prontamente sbarrate appena lui vi rivolge lo sguardo. Lì non si aspetta altro che lui esca dal binario per volargli addosso con tutte le ragioni del mondo e con un’acredine covata per mesi. Le aree ostili si allargano e incancreniscono aumentando il disagio di questi spostamenti con denunce e dissapori.
Non intendo sostenere che ogni pastore vagante sia un esempio di correttezza e buone maniere. Facile che non lo sia. Facile che tra loro ci siano dei veri criminali che approfittano della mobilità insita nella loro vita quotidiana per compiere le peggiori nefandezze. Tali nefandezze sono in genere pascolo su terreno altrui senza autorizzazione del proprietario, abbandono di pecore morte lungo la strada, ostruzione del traffico, imbrattamento del manto stradale; alcuni vanno sistematicamente fuori misura per ognuno di questi capitoli, altri sforano e poi rientrano nei ranghi. Può succedere che le pecore lasciate in un recinto vicino alla ferrovia, escano dalla rete andando a ostruire i binari. Se il macchinista tira dritto, il danno sono le pecore morte e la storia finisce lì. Se il macchinista ferma il treno e si aspetta personale in grado di tirare via tutte le pecore spiaccicate dai binari, il ritardo del treno va ad aggiungersi al danno della perdita di animali e si tratta di multe oltre l’immaginazione.
Il pastore che si sposta con il gregge è da guardare in fotografia e nei documentari, trovarsi alle sue spalle mentre attraversa un ponte impiegando dieci minuti a far scorrere il suo fiume di pecore, fa andare in bestia ogni civile cittadino.
Gli animali sporcano, gli animali puzzano, gli animali muoiono. Allevare e macellare sono attività di altri tempi. La carne, i pochi che la mangiano ancora, la trovano impacchettata in candide vaschette esposte in enormi frigoriferi illuminati al neon. La carne di pecora la mangiano prevalentemente gli extracomunitari e se ne riforniscono da circuiti da loro organizzati.

Il pastore fa il suo giro (Una vita diversa) di Lorenzo Chiabrera su Vimeo.

Per millenni l’uomo è vissuto con i suoi animali, li ha seguiti e ha adeguato i suoi ritmi a quelli del bestiame che gli dava da vivere. I pastori che vediamo d’estate nelle giornate di sole a guardare greggi assopite ruminando, passano l’inverno nella nebbia e nel traffico e le notti di tempesta con il pensiero di come saranno gli animali l’indomani.
Le vie non ci sono più, il commercio è difficile, multe, documenti e denunce di ogni amante degli animali sono gli ingredienti della distruzione di un mestiere che è in via di estinzione.
Ogni pastore incontrato, per quanto allegro e ironico, mi ha lasciato addosso l’amaro di una malinconia di fondo. Nessuno di loro potrebbe mai svolgere un altro mestiere. Ognuno di loro nella sua montagna è un signore. Ognuno di loro con l’ingiallirsi dell’erba si commuove della bellezza del tramonto e rabbrividisce al pensiero dell’inverno, anche quelli che d’inverno hanno una stalla in pianura dove riparare il proprio gregge.
Siamo piccoli esseri che camminano su due gambe e non hanno neanche una pelliccia per difendersi dal freddo, la nostra esistenza è un istante e le nostre azioni lasciano segni molto più effimeri di quello che crediamo. L’epoca in cui le montagne erano abitate e vissute in ogni angolo è stata un attimo fa e gran parte delle immani opere che hanno reso quelle montagne abitabili sono già quasi un ricordo. Le belle praterie punteggiate di mandrie e greggi al pascolo sono un paesaggio legato all’ attività umana. Se la foresta avanza è perché l’attività pastorale non è sostenibile in questa economia. Il lupo è tornato perché prima c’era. Il lupo delle Alpi è un animale da foresta. Sì, c’è anche il lupo, ma qual è il lupo? Quello con le zanne da cui bisogna guardarsi d’estate? O quei mille senza zanne che possono attaccare in ogni momento sotto le più fantasiose spoglie?

È con affetto che ho salutato i tanti pastori che ho incontrato su questa strada, ed è con l’impressione di aver avuto la fortuna di incontrare eroi di antichi miti che mi siedo davanti a questo foglio e penso a loro. Può essere che un giorno le loro capacità e conoscenze tornino ad essere necessarie. Temo che quel giorno loro non ci saranno più e che altri uomini dovranno riscoprire da zero ciò che è arrivato fino a qui tramandato da generazioni su generazioni.