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CapoDiPace CapoDiGuerra

Questi sono solo miei pensieri. Il dolore per quello che sta succedendo a tre mesi di viaggio a cavallo da qui, non mi lascia. Le soluzioni intraprese finora per fermare questo macello mi sembra che possano solo accelerarlo e aumentare le perdite in termini di vite umane.  Provo a raccontare di altra gente che viveva in modo forse più semplice, forse più vicino di noi al confine tra vita e morte e che forse dava alla vita un valore diverso da noi. Ci provo, ma non sono sicura che c’entri.

Attenti al Tibet

I Lakota ritenevano di essere uomini in quanto parlavano tra loro la stessa lingua. Chi parlava un’altra lingua era un nemico.  Crow, Pawnee, Piedineri avevano ragioni simili per sentirsi uomini e anche per loro gli altri erano solo nemici. Guardando da fuori ci si accorge subito che erano tutti uomini nello stesso modo e sembra stupido che dovessero combattere tra di loro. Erano società semplici e libertarie le cui scelte venivano valutate da un consiglio di anziani.  C’era un capo di guerra che era un uomo coraggioso con una carriera di mirabili atti di valore in favore del suo popolo. A lui era affidata la tattica per guardare i confini del territorio della banda e per difendere la propria gente dai nemici.
Il suo eroismo era subalterno alle decisioni del capo di pace che era un uomo di valore, scelto per la sua saggezza a guidare le decisioni importanti.
Non bastavano i capelli bianchi a fare un capo di pace. Non bastava il numero di piume d’aquila sul casco di guerra per fare un capo di guerra.
Il fatto che fossero due persone diverse e che entrambi potessero essere allontanati con disonore, se mostravano di prendere decisioni o compiere azioni per il proprio interesse, era il motivo di equilibrio in questa società che viene descritta come primitiva.
Mi chiedo: la società occidentale e democratica é capace con tutte le sue strutture di raggiungere questo equilibrio? Cosa le manca? Perché ancora adesso sembrano stupide solo le guerre degli altri e quando potremmo evitarne una, continuiamo a fare il tifo per gli eroi?  Crediamo ancora che basti un solo cattivo a scatenare una guerra mondiale? Com’è possibile che, sapendo di essere esattamente come il nemico, riusciamo ancora a pensare di combatterlo in modo così primitivo? Com’è possibile che l’analogo di un capo di pace attuale, oltre a decidere la guerra, si metta a fare anche il capo di guerra? Chi é più primitivo??

La mappa del mondo 5.5

Saratovskaya trassa. Tra la strada ed il Volga, solo neve, un muro di neve più alto del garrese di Custode. L’ultimo posteriore di Custode pestava nello stesso posto del secondo posteriore di Cigherè. Avanzavamo in tre, come se fossimo uno.

In questi giorni tre anni fa, abbiamo percorso centocinquanta chilometri di questa strada. Le piste erano coperte da un metro di neve e l’unico modo per avanzare era questo. I cavalli filavano a trenta, trentacinque chilometri al giorno. Non fiatavano, non si spaventavano, non erano allegri ma neanche tristi. Avevano la faccia dell’inverno. Io intanto ho avuto modo di conoscere il mondo dei camionisti russi che sono i viaggiatori per eccellenza. Non c’è uno di loro che non abbia manifestato cavalleria e poesia e quell’attenzione del viaggiatore con cui si scambiano informazioni sulla strada, sulle condizioni dei ponti, su tutto quello che serve per andare avanti. I camionisti sono i viaggiatori di questo tempo. Hanno le loro rotte, punti di riferimento, persone che tornano a salutare ogni volta che passano. Non contano più i chilometri e le notti sulla strada. Stentano di ricordare l’ultima notte che hanno passato in un letto.

Ci fermavamo nelle aree di sosta dei camion e in qualche modo del fieno e dell’avena lì intorno, saltavano fuori sempre, mi montavo il telo e il mondo selvatico si infilava anche lì, perché si spande molto più ovunque di quanto si creda.
La piuma di aquila che è legata alla testiera di Cigherè da allora, arriva da un area di sosta per camion della Saratovskaya trassa.
Poi abbiamo incontrato i cosacchi, passato il Volga e non abbiamo più frequentato strade per migliaia di chilometri. Abbiamo ripreso i nostri meccanismi da viaggio selvatico e incontrato altre persone.
Bellissimo, ma non rinuncerei al ricordo del pezzo di strada con i camion per niente al mondo.
E’ strano come la strada permetta di sviluppare solo uno stretto nastro di mappa.
Un pochino più in là ci sono altre persone, villaggi, realtà e sogni. Dare volume ad un piccolo pezzo, lascia il resto della mappa a due dimensioni. scegliere dove passare è anche scegliere dove non passare e a volte quei mille punti interrogativi ad ogni bivio, mi obbligano ad immaginare e continuano a scorrere la propria realtà.
Vasilji, ataman dei cosacchi di Bolshevik, veterinario, maniscalco, allevatore e guida. Un vero signore sotto un berretto di astrakan

semplicemente tè

Trovare una nota epica nel quotidiano può essere grandioso, ma banalizzare l’epica per me é un delitto.
сүүтэй цай: tè al latte

Il tè mongolo é prevalentemente composto da scarti del tè verde cinese e venduto in mattonelle pressate come questa. Vengono portate in buste di cuoio che vengono appese a dx della porta della gher. Ogni donna ne ha una e quando parte, la porta con sé.

mattonella di scarti di tè verde di uso comune in Mongolia
L’acqua viene fatta bollire in un wok che è lo stesso con cui si prepara ogni pietanza, si lavano le stoviglie e si scalda l’acqua del bucato. É sempre lucido dentro e nero fuori
Quando l’acqua bolle, vengono aggiunti sale e latte. Quando il latte monta, il wok viene spostato su un treppiede vicino alla stufa e viene aggiunto il tè. Dopo circa cinque minuti di infusione, viene passato in un colino e versato in uno o più termos da due litri e servito in ciotole grosse come quella che ti mando in foto, che sono le stesse in cui si mangia la zuppa, alternando tazze di tè e tazze di montone in qualsiasi forma
É sempre la donna a riempire le tazze ogni volta che si svuotano. Quando si è sazi, si porge la tazza coprendola con la mano.
il tè di Bolormaa
Иван чай
il sacchetto azzurro per trasportare l’ivan tchaj nelle bisacce da sella da una parte all’altra della Russia

Questo è quello che mi resta dell’Ivan tchai di Katia. In Russia è frequente trovare il tè nero, ma viene dalla Cina e in epoche peggiori di questa era costoso per la gente comune che metteva in infuso l’ivan tchai. Questo si ottiene con la macerazione ed essicazione delle foglie di Epilobium che é un’infestante ruderale comune anche qui.

Nel samovar, insieme all’ivan tchai si mettono anche altre erbe come timo, malva, tiglio o altre, a seconda della stagione

Il samovar é fatto così: c’è un braciere dove si mette del carbone acceso e dei piccoli legnetti, all’inizio fuma un po’, poi cimisce e la brace sempre accesa non fuma più. Il braciere scalda e tiene in caldo l’acqua contenuta nella caldaia intorno al tubo da cui esce il fumo. Sopra il ‘camino’ c’è un vassoietto su cui è appoggiata una piccola teiera che contiene le erbe e l’acqua bollente versata con un rubinetto nel piano basso della caldaia. Nelle tazze si versa un sorso di questo liquido di infusione molto concentrato che viene diluito con acqua bollente tazza per tazza.

samovar di Sasha sulla stufa della scuderia

In casa di solito si semplifica in questo modo: sulla stufa c’è un bollitore e sul tavolo una teiera in cui si infondono le erbe nell’acqua bollente. Il liquido concentrato viene versato completamente in una tazza e rimesso nella teiera per tre volte, poi ne viene versato un sorso in ogni tazza che viene diluito con l’acqua bollente del bollitore. Chi vuole aggiunge latte freddo. A oriente tutti. Verso l’Europa sempre di meno. Qualcuno, per fare l’europeo, invece del latte mette il limone e tutti si stupivano che io aggiungessi sempre il latte come gli asiatici..ma io non mi toglierò mai la nostalgia dell’Asia e nel tè nero aggiungerò il latte ogni volta che ce l’avrò.

tre metri per tre

certe volte mi devo mettere a scavare nel mucchio delle foto del viaggio dalla Mongolia e ci sono dei momenti di una dolcezza inspiegabile che mi strizzano l’occhio da angoli remoti della memoria.
Le visite notturne dei mongoli quando ero ormai in camicia da notte nel saccopelo erano il quotidiano. Sul momento mi sembrava la cosa più normale del mondo. Venivano a trovarmi, mi insegnavano qualche parola, portavano sempre dei regali e soprattutto la semplice spensieratezza.
Il telo tenda è tre metri per tre. Si schiacciavano tutti lì sotto per respirare quell’aria della mia casa da viaggio. Gli preparavo un tè con il fornellino e loro si mettevano a chiacchierare come se fossimo comodi dentro una gher. Tre metri per tre diventavano un mondo: una cellula di avventura in viaggio tra lo spazio e il tempo.
Grazie nomadi della Mongolia, spero che quello che ho trovato laggiù non stia patendo troppo.

Il cavaliere volante

Dalle alture della steppa, si può guardare lontano. Sulla mappa le lingue di foresta che serpeggiano tra l’erba gialla sono intorno ai corsi d’acqua; gruppetti di alberi più radi in posti meno battuti dal vento e lontani dalle paludi sono quasi sempre villaggi. Ogni casetta è recintata con alte staccionate di legno che servono a non far entrare gli animali che pascolano fuori. In ogni recinto crescono alberi, il più frequente è la betulla, ma anche conifere e sorbi si alternano qui e là.
A volte per avanzare oltre il panorama visto dall’alto ci vuole un giorno, altre volte due, dipende da quanto la geografia mi permette di alzarmi per traguardare.

A Solanovka ci eravamo fermati un paio d’ore a pascolare l’erba di Ivan. Lui è l’istruttore della scuola di volo, ma ha sempre avuto la passione per i cavalli e intorno alla casa girava la sua vecchia cavalla da gara dallo sguardo dolce e smagrita dall’età. Il grande recinto ospitava tre cavalli yakuti, razza equina in grado di sopravvivere all’aperto nei luoghi abitati più freddi della terra. All’equinozio d’autunno, nel giro di pochi giorni il loro mantello si infittisce diventando una fitta pelliccia. Uno dei tre si stava preparando all’inverno proprio in quei giorni e mi ha fatto vedere i riccioli che si stavano infittendo sulla sua schiena. Era mezzogiorno e splendeva il sole e, anche se eravamo in Siberia, non eravamo in Yakutia e il cavallo era accaldato.

E’ stato bello stare un momento in quella casa sulle cui pareti erano appese foto di tutta la Russia fatte dall’aereo: La Crimea, il Don, gli Urali, la Kamtchatka, lo Jenissei e il Volga. Tutta la Russia mischiata senza geografia, in disordine di bellezza.
Vicino alla casa c’era una grande betulla.
Lui sapeva tutta la strada che avevo fatto e quella che dovevo fare: ci è volato mille volte!

mare di erba

mappe della Mongolia

dal 2007, ogni volta che tornavo in Mongolia mi fiondavo appena possibile al negozio di mappe. Era come se, non potendo vederla tutta, guardare le mappe dettagliate potesse farmi scoprire direttrici privilegiate da cui poter esplorare al meglio quel mondo.
tra le altre, c’era un’enorme cartella dove potevo sfogliare le migliori mappe che abbia visto: quelle finite di mettere a punto dai russi fino agli anni ’50 dell’altro secolo. Ho imparato il cirillico per leggere le mappe della Mongolia! Erano le più dettagliate che si potessero trovare: 1:500000. Qui chi usa ancora le mappe di carta usa la scala 1:25000, a volte 1:50000. Lì DIECI volte tanto. Le guardavo proprio per quello. Erano come la borsa di Mary Poppins: a quella scala gigante erano evidenziati persino gli alberi. Non riuscivo a capacitarmene, ma ogni volta che sono partita dalla capitale, avevo con me i fogli dei posti dove sarei andata e sono sempre stati talmente precisi da poter inventare qualsiasi fuoripista senza perdere l’orientamento.
Quando ho progettato l’itinerario attraverso la Mongolia ho dovuto essere il più precisa possibile: non potevo portarmi tutte le carte del Mongol Uls! La signora è stata gentile come sempre. Mi spiegava dove rischiavo di trovare zone desertiche e quali fiumi erano troppo difficili da attraversare. Sceglievo man mano un aimag dopo l’altro. Quando siamo arrivate a Bayan Olgi, mi ha guardata dritta negli occhi e mi ha detto:
– questa provincia è proprio lontana, lì parlano un’altra lingua!

fuga dalla burocrazia

il Tuul Gol è il fiume intorno a cui è cresciuta Ulan Bator, l’attuale capitale della Mongolia. I cavalli hanno passato l’inverno precedente il viaggio lì, dove era più facile risolvere controlli veterinari, quarantene, microchip e burocrazia. dal Tuul Gol a Harahorin, siamo andati su ruote, su uno di quei camioncini minuscoli con cui si trasportano i cavalli in Mongolia. Questo era già sofisticato, aveva perfino delle sbarre laterali a cui i cavalli potevano appoggiarsi. altri sono semplici furgoncini con sponde di venti, trenta cm e il pianale liscio, su cui solo i cavalli mongoli sono in grado di restare in piedi fino a destinazione.

ciao, sto arrivando con il veterinario, deve vaccinare i cavalli, sono vicino al campo?
– sì, sono qui
-tutti e tre?
-sì
Quando siamo arrivati al campo un quarto d’ora dopo, tutti i cavalli del branco erano al campo, ne mancavano solo tre, uno era Tgegherè.
I tre moschettieri sono stati trovati ventiquattro ore dopo in un boschetto di salici. Per tutta la sera e il giorno seguente, persone a cavallo e in moto battevano la zona alla loro ricerca, al campo non si parlava d’altro che di cavalli rubati. il trasportatore era lì dal mattino per portarci a Harahorin. Io non credevo a nessuno e cercavo di leggere per non pensare.

Appuntamento a Cracovia

Il 16 settembre alle 12 arriveremo in piazza a Cracovia. Ci accoglieranno il comune, la casa della Cultura, il museo storico e soprattutto i pompieri della città.  A loro consegnerò la freccia che mi é stata affidata da Enkhbat, il sindaco di Kharakhorin, più di un anno fa.

 

Abbiamo dormito sotto milioni di stelle, percorso migliaia di chilometri, incontrato centinaia di persone, superato decine di ostacoli e vissuto ogni giorno come se fosse unico. Siamo tre esseri in viaggio. Non siamo arrivati. Siamo solo vicini alla meta, ma è incredibile. Era incredibile prima e pochi ci hanno creduto. É ancora più incredibile adesso e questa è una cosa con cui non immaginavo di dover fare i conti. Quello che é vero di sicuro é che siamo qui a cento chilometri da Cracovia e che legata alla sella portiamo una freccia mongola che ci é stata affidata a ottomila chilometri da qui e che tante persone diverse l’hanno vista e toccata lungo la strada imprimendole un sogno di pace.

 

Oltre il Don

2019_04_22 Kalabino
Dopo aver marciato con il Don alla nostra sinistra per quasi un mese, ho dovuto decidermi ad attraversarlo. Un ponte é una cosa da niente: meno di un chilometro e sei dall’altra parte, ma certi ponti sono viaggi interplanetari, da questa parte del fiume l’umanità é completamente diversa. Mi sento di aver lasciato una terra amica, se ci fossimo trovati qui in inverno, non ce l’avremmo fatta ad avanzare, la gente é chiusa, guarda storto e pensa sempre che ci sia una fregatura. Finché sono avanzata tra i cosacchi ogni persona è stata un diamante che ha reso prezioso ogni minuto di questo anello verso Vyocenskaya.

Sergej, ataman di Mikhailovka sul Medvediza, che ci ha spalleggiati mentre costeggiavamo il Don, mi ha accompagnata a vedere Stalingrado facendomene cogliere significati profondi e ha reso leggero il viaggio di Tgegheré quando era stanco. Questa persona é mille persone in una.

Qui il bello sono i paesaggi, la steppa é mossa su colline varie. Incontriamo almeno un paio di laghetti ogni giorno e finalmente c’è erba. Custode e Tgegheré sono contenti di pascolare e per loro é meglio qui.

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La mossa del cavallo

Ritrovati Tgegheré e Custode in piena forma. Qui sono con l’abate del monastero della Resurrezione e con padre Ambrogio che é originario di Rostov na Donu. Lui è un autentico cosacco e prima di prendere i voti ha sempre avuto cavalli.

Nawmosjka, ventidue febbraio duemiladiciannove

Era tutto fermo. Dovevo di nuovo aspettare. Aspettare il maniscalco, aspettare i documenti della quarantena, aspettare i file delle mappe per proseguire. Aspettare, aspettare, aspettare: tutte pedine che avevo avvisato tre mesi fa. Scacchiera immobile, telo montato nello stesso posto per dieci giorni, fuoco acceso. Il fuoco del campo e i muscoli in movimento scaldano in modo diverso.
Una domenica pomeriggio girovagavo sulle sponde dell’Irghis guardando i mulinelli di neve portati dalla bufera. Sulla pista che porta al monastero c’erano tracce di un cavallo al trotto. Per gioco mi sono messa a seguirle. Silenzio, mulinelli, rami secchi che si rompono al vento. Per mezzo minuto il silenzio bianco di cielo e terra si è spezzato: un cavallino nero al trotto veloce tirava una slitta condotta da un signore dall’aria allegra, dietro era seduta una signora dai tratti asiatici. Ridevano e l’aria rideva con loro.
Quello era il cavallo che stavo seguendo. Fine del gioco, inizio del gioco. L’indomani sono tornata negli uffici della stazione veterinaria.
Posso partire venerdì!!!

Sulle tracce della slitta di Sergej, mi ritrovo su un’autostrada per cavalli. Da qui passano solo loro e viaggiano come il vento.

Non so se é stato quel cavallino nero a smuovere tutto, o se semplicemente era ora che si allineassero le stelle per la partenza. So che da quel momento in poi é arrivato tutto di colpo e che adesso siamo davvero in marcia da quattro giorni. Ogni tanto il vento molla e sembra che faccia caldo.
Quel cavallo arrivava da Vetka, sulla riva opposta dell’Irghis rispetto al monastero che ci ospitava. Abbiamo camminato sul fiume gelato per tre chilometri seguendo la pista della slitta di Sergej, da casa sua comincia il secondo tempo del viaggio, la signora che era seduta dietro nella slitta era sua moglie. Loro vivono in questo villaggio dove non c’è neanche il negozio, hanno cavalli, mucche, pecore, galline, oche e piccioni. D’inverno arrivano con la slitta fino al monastero e lí qualcuno gli porta la spesa dalla città, d’estate ci sono la telega e il ponte pedonale dei pescatori. Il ghiaccio dei fiumi non é più sicuro. C’é solo meno dieci e comincia a fare crepe. Per attraversare il Volga dovrò per forza salire su un ponte.