Mille e mille anni fa gli uomini vivevano di caccia. I cavalli selvatici erano preda ambita e galoppavano su tutte le steppe dell’emisfero boreale. Sono ritratti in pitture rupestri e manufatti di comunità di uomini che non avevano ancora inventato la scrittura. In America ed Europa sono stati cacciati fino all’estinzione e nessuno ha scoperto che salendogli in groppa si potevano compiere imprese incredibili. In Asia Centrale un giorno qualcuno è salito a cavallo e tante cose sono cambiate. Lì i cavalli selvaggi non si sono estinti finché gli uomini dell’occidente non hanno frequentato troppo assiduamente quei luoghi e li hanno riscoperti. Per me questi piccoli cavallini che Nikolaj Michailovitch Przewalski ha permesso di classificare, sono più mitici dell’unicorno e galoppano di nuovo liberi in Mongolia e in riserve naturali del resto del mondo. Questa storia è la chiave per aprire molte porte e, anche se è successa molti anni fa, vorrei raccontarne alcuni episodi perché è bella.
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Il cavaliere volante
A Solanovka ci eravamo fermati un paio d’ore a pascolare l’erba di Ivan. Lui è l’istruttore della scuola di volo, ma ha sempre avuto la passione per i cavalli e intorno alla casa girava la sua vecchia cavalla da gara dallo sguardo dolce e smagrita dall’età. Il grande recinto ospitava tre cavalli yakuti, razza equina in grado di sopravvivere all’aperto nei luoghi abitati più freddi della terra. All’equinozio d’autunno, nel giro di pochi giorni il loro mantello si infittisce diventando una fitta pelliccia. Uno dei tre si stava preparando all’inverno proprio in quei giorni e mi ha fatto vedere i riccioli che si stavano infittendo sulla sua schiena. Era mezzogiorno e splendeva il sole e, anche se eravamo in Siberia, non eravamo in Yakutia e il cavallo era accaldato.
mappe della Mongolia
Appuntamento a Cracovia
Il 16 settembre alle 12 arriveremo in piazza a Cracovia. Ci accoglieranno il comune, la casa della Cultura, il museo storico e soprattutto i pompieri della città. A loro consegnerò la freccia che mi é stata affidata da Enkhbat, il sindaco di Kharakhorin, più di un anno fa.
Abbiamo dormito sotto milioni di stelle, percorso migliaia di chilometri, incontrato centinaia di persone, superato decine di ostacoli e vissuto ogni giorno come se fosse unico. Siamo tre esseri in viaggio. Non siamo arrivati. Siamo solo vicini alla meta, ma è incredibile. Era incredibile prima e pochi ci hanno creduto. É ancora più incredibile adesso e questa è una cosa con cui non immaginavo di dover fare i conti. Quello che é vero di sicuro é che siamo qui a cento chilometri da Cracovia e che legata alla sella portiamo una freccia mongola che ci é stata affidata a ottomila chilometri da qui e che tante persone diverse l’hanno vista e toccata lungo la strada imprimendole un sogno di pace.
Rotondo e quadrato
La Russia non è la Mongolia. Quello che la gente al di qua della frontiera sa dei mongoli é che vivono nel deserto, sono dei primitivi e bisogna guardarsi da loro. Se penso a tutte le belle famiglie che ho incontrato non riesco a dare una logica a questa impressione molto comune. Se penso agli ultimi mongoli in cui sono incappata prima di passare la frontiera, devo dargli ragione.
Per trovare un equilibrio tra queste due facce, credo che il motivo principale della differenza tra la maggior parte dei mongoli é quelli di frontiera sia dovuta alla circolarità delle loro tende, delle loro vite e delle loro stagioni. Avvicinandosi alle strade, abitando in palazzi, bazzicando sulla frontiera, é più difficile rimanere rotondi e quei mongoli che si fanno conoscere all’estero, sono quelli quadrati.
É stata una batosta scontrarmi con quegli spigoli e quando sono arrivata in Russia avevo un enorme bisogno di umanità.
Sasha e Liuba, gente di Altai. Compiti ben precisi: mentre Giovanni e Sasha andavano a recuperare la benzina per il viaggio, Luiba mi ha offerto il tè. Qui non è più salato e ci sono molte differenze, ma quel gesto mi ha rinfrancata. Di qui e di là dalla frontiera ci sono persone rotonde e quadrate. Sta a me cercare la strada più rotonda possibile.
Liuba vuol dire Amore, lei è una nonna decisa e dolce insieme. Una volta cantava ma adesso la sua voce é invecchiata e ha deciso di non cantare più. Mi é capitato di sentirla canticchiare tra sé e sé, ma credo che quando cantava, fosse un’altra cosa.
Sasha é di quei tipi di persone che aggiustano qualsiasi cosa anche se non ci sono pezzi di ricambio. Il cortile ha diverse aree coperte e ognuna racconta una piccola attività in miniatura: legno, ferro, ferramenta. Da una specialità all’altra, Sasha deve fare otto passi.
Sul lato dei recinti delle capre c’è l’unica porta chiusa a chiave. Lí Sasha scolpisce intarsiando le ossa con il coltello e svelando cigni, fiori, cavalli e stelle che fino al suo tocco magico erano invisibili per chiunque altro.
I figli hanno le loro vite ma girano per casa dando una mano. Valora e sua moglie Suraya raccoglierann il fieno per le capre di Sasha é Liuba, appena finiranno di riporre il loro. Ogni giorno passano a salutare e portano quello che può servire da Kosh Agach.
I nipoti vanno e vengono con gli altri ragazzi del paese e non si capisce mai chi abita dove.
Altai. Un’altra lingua che non è il russo e in alcune parole mi ricorda il mongolo. Lo sciamanesimo é sopravvissuto al secolo scorso ed è molto sentito. Il cielo é vicino in questo pezzo di Russia. Ghiacciai scintillano al sole sui due versanti della valle che porta qui e fiumi e torrenti corrono i fianchi di queste montagne dissetando migliaia di animali al pascolo.
Solo dopo aver bevuto il tè di Liuba si é rotto l’incantesimo che mi impediva di vedere tutte queste cose. Un tè rotondo.
Bayarté
Cammina, cammina, siamo quasi al confine. Più vado avanti, più quello che vedo mi sembra impossibile e più mi sembra impossibile che da qui a qualche giorno dovrò farne a meno.
Mongolia, una terra che somiglia ad un cielo costellato di gher con tutto quello che gira intorno e dentro alle gher.
Più vado avanti e più mi sembra di essere rimasta troppo in superficie, di aver solo guardato il colore della buccia di un frutto coloratissimo, accontentandomi di immaginarne il gusto.
Mongolia: una terra che scorre sotto un cielo enorme. Dove di notte, quando ho potuto permettermi il lusso di non montare il telo, avevo l’impressione di essere in mezzo a una sfera di stelle talmente rotonda, talmente trapuntata di stelle da farmi mettere in dubbio tutta la fisica che avevo studiato a scuola. Dove di giorno le nuvole vengono, vanno, scoppiano in temporali e si tingono di arcobaleni. A volte, mentre domina il viaggio, questo cielo è proprio un compagno di viaggio: fa sorridere, piangere, ammalia e spaventa. Inutile cercare di sfuggirgli, qua non ci sono tettoie e anche nelle gher il rosone centrale é aperto alle stelle, al vento e al diluvio.
Terra e cielo così confusi, hanno preservato un modo di vivere che sembra essere rotondo anche lui, una spirale di giorni che vanno dall’inverno più rigido all’estate più afosa passando attraverso le mungiture di tutti gli animali allevati qui e le diverse lavorazioni del latte, proprie di ogni stagione.
Bayarté Mongolia! Che la parola con cui si saluta quando si esce da una gher risuoni, senza che nessuno la dica, passando questo confine.
Mi piacerebbe saper cantare per salutare degnamente questo paese. Non ne sono capace, mi riempio di questo cielo, cammino su questa terra, scorro le pagine del taccuino magico che mi ha aperto molte porte da Tsetserleg a qui e cerco di rivedere tutte le facce che mi hanno scritto i loro nomi e messaggi. Una folla di sguardi profondi e mani indurite dal gelo mi viene incontro e spero che sopravviva al caos di Ulan Bator che ha un suo fascino, forse dovuto allo stesso cielo che la lega a tutto il paese, forse dovuto alle parentele. Lì é tutto il contrario che qui.
tre cavalli
questi tre cavalli sono ciò che ho lasciato in Mongolia insieme alla mia sella e all’embrione di un progetto che comincia a prendere forma un mattone sull’altro.